Quello che segue è un racconto di Mario Badino. Dice l’autore: «Non è un racconto nuovo, non so se è un bel racconto, ma ci sono affezionato e non ho saputo trattenermi dal riproporlo».
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L’epidemia
Il vecchio Pasquale fu la prima vittima.
Lo trovarono svenuto in pieno centro, mentre cercava di ripararsi dal sole del dopopranzo sotto una tettoia. Lo caricarono sopra un carretto e lo portarono all’Ospedale Policlinico, dal quale uscì dopo un giorno appena, poiché le sue condizioni erano nella norma e la responsabilità dell’accaduto, secondo la dichiarazione del primario, dottor Ludovico Sezze, andava addebitata «all’estrema calura di questi giorni, che sembra che il sole sia disceso nelle strade e a quell’età non conviene passeggiare da soli».
Non pioveva da parecchie settimane e il caldo era stato causa di numerosi incendi che – si diceva – scoppiavano spontanei nei campi. Anche la cascina di Pasquale era andata in fumo, ma il vecchio sosteneva che il sole non c’entrava niente e che la colpa andava addebitata all’invidia di qualche nemico.
Ora vagabondava di locale in locale e si proclamava l’eletto: diceva di essere superiore agli altri uomini, litigava con tutti e non mangiava quasi più, tanto che s’era ridotto a uno spaventapasseri avvizzito. Intanto, la vita cittadina continuava come sempre: nelle botteghe ferveva il lavoro, la Rocca forniva un rifugio malinconico ai poeti e agli innamorati e il mare faceva avanti e indietro sulle sue onde eterne, solcate dalle barche dei pescatori. Nei vicoli, però, i vecchi edifici guidavano il vento per cento corridoi intonacati, raccogliendo le confidenze dell’antico chiacchierone e dispensando agli uomini incertezze e timori. E fu così che nessuno si stupì realmente quando, una settimana dopo il mutamento di Pasquale, anche Tonino, il gestore del Caffè di Santa Spé, principiò a dare i numeri.
«Sono il migliore», ripeteva senza sosta; e rifiutava di servire i clienti malvestiti.
Una notte scoppiò una rissa perché gli avventori che si trovavano nel locale avevano deciso di stabilire chi fosse il più in gamba fra loro.
Dapprima avevano provato con una gara d’intelligenza, quindi erano passati alle mani. Finirono al pronto soccorso in quattro; Tonino, che si era rotto il naso, rifiutò di seguirli: chiuse una mano intorno alla protuberanza dolorante e se la drizzò da solo, perché non si fidava dei dottori, presuntuosi e arroganti. Da quel giorno non poté più dormire senza russare.
Le autorità iniziarono a interessarsi a quella che i giornali già definivano un’epidemia di superbia soltanto a seguito di un’ordinanza piuttosto stravagante emanata dal sindaco.
Tutti i cittadini, ingiungeva il decreto, dovevano venerarlo come un dio, recandogli in tributo un agnello da latte ogni due settimane. In mezzo alla piazza principale, sarebbe stato eretto un altare di pietra dove consumare i sacrifici e accendere un fuoco sacro, da alimentare continuamente per invocare la protezione del destino. Allora il Consiglio comunale intese la gravità della situazione e chiese aiuto alla scienza.
Gli ingegneri del Politecnico approntarono alcune Vasche dell’Umiltà, che furono disposte nei luoghi strategici. Quando qualcuno era sorpreso in atteggiamento sospetto, veniva afferrato e gettato di peso nelle enormi piscine. Usciva dall’acqua completamente redento: ora era umile, molto umile, era anzi il più umile di tutti e andava gridando che chi non era d’accordo con lui andava soppresso.
Così passò il tempo, senza che si trovasse una vera soluzione.
Ogni contatto tra la Città e l’esterno fu interrotto, per evitare la diffusione del morbo, e anche nutrirsi diventò difficile.
Un manipolo di soldati, giunti appositamente dalla Capitale, controllava gli accessi, tenendosi a distanza di sicurezza. L’ordine era di far fuoco per respingere qualunque sortita. Privi della possibilità di comunicare con le campagne, gli assediati incominciarono a mancare di cibo. Uomini e donne si trascinavano per le strade, ognuno per conto proprio, dando la caccia ai topi e ai piccioni, troppo superbi per collaborare. Incominciò a circolare la voce che nel Palazzo comunale fosse nascosto il grano. Ma i cittadini si ostacolavano fra loro, ognuno cercando di portare un inutile assalto personale e tutti spegnendo il loro slancio contro i portoni sprangati del Municipio.
Infine, quando ormai si era persa ogni speranza, giunse l’autunno, e con l’autunno le piogge.
La situazione tornò normale e la pestilenza finì com’era cominciata.
«Il repentino abbassamento della temperatura ha prodotto sulla Città lo stesso effetto della borsa del ghiaccio sul capo del febbricitante», ebbe a dire in quei giorni la radio. Il cordone sanitario fu sciolto e frotte di studiosi giunsero da tutto il Paese per cercare di capire che cos’era successo. La colpa fu attribuita, secondo la spiegazione ufficiale, a uno strano batterio della famiglia degli staffilo-tocchi, prima di allora del tutto sconosciuto. Nei giorni precedenti il diffondersi del morbo, una nave proveniente dal Mar Nero, carica di grano, aveva fatto approdo nel Porto cittadino. Alcuni testimoni avevano riferito che, nelle taverne lungo i moli, i marinai si erano comportati in maniera più rissosa e insolente del solito. Finalmente era stata appurata la causa della peste.
Come atto di ritorsione, la Città di Camelia sospese ogni importazione di grano dal Mar Nero per i successivi quindici anni.
>>> La foto mostra uno scorcio della città di Mesagne (Brindisi). Mi sembrava in tono con la mia immagine mentale della città di Camelia.
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